Archivio della categoria: Editoriale

La Comunicazione, Principale Nodo da Sciogliere per Aprire le Porte delle TI ai Familiari. Il “Gruppo Paziente”.

Editoriale

Sulle Terapie Intensive Aperte

La Comunicazione, Principale Nodo da Sciogliere per Aprire le Porte delle TI ai Familiari. Il “Gruppo Paziente”.

di S. Vasta*
*Responsabile Editoriale Timeoutintensiva.it

09/07/2012

“… Il paziente i familiari e gli staff di cura non sono tre realtà diverse e lontane. Sono un insieme, quello che noi dal ’97 chiamiamo il “Gruppo Paziente” fatto dal paziente i suoi parenti, gli intensivisti, i nurse, gli Ota. Non era più possibile, e non lo è più adesso, considerare le terapie intensive come caserme chiuse ed inagibili ai sentimenti dei familiari e dei pazienti ed alla loro presenza, e soprattutto ad i nostri sentimenti, di noi operatori, ed aperte solo alla “purezza” della scienza. Curare un paziente in questi reparti siano essi polivalenti, oncologici, neuro o cardiochirurgici significa curare un “trauma” denso di dolore che colpisce il paziente la famiglia e lo staff di cura che lo prende in carico. Ma questo gruppo di persone sentimenti professionalità ed umanità che girano attorno al dolore che ha colpito “uno di noi”, per poterle avvicinare e mettere insieme, non ha bisogno solo di letture scienza e conoscenza, ma anche di Formazione Psicologica e Umanizzata… “ Continua…

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Timeoutintensiva.it, N°22, Cover, Ottobre 2012

“Eutanasia”: Un Termine Nato Sotto Il Regime Nazista Ed Abusato Nell’Attuale Dibattito Sul Fine Vita. Ricerca Etimologica E Definizione.

Editoriale

“Eutanasia”: Un Termine Nato Sotto Il Regime Nazista Ed Abusato Nell’Attuale Dibattito Sul Fine Vita. Ricerca Etimologica E Definizione.

a cura di S. Vasta

Anestesista-Rianimatore
Responsabile Editoriale Timeoutintensiva OpeNetwork i.Change Openproject

29/11/2011

L’uso piuttosto disinvolto del termine “eutanasia”, quanto il suo abuso nella storia recente e nell’odierno dibattito su questi temi, oggi è notevole. Per chiarire meglio questo “cattivo uso” del termine, nell’articolo verranno riportate alcune osservazioni, e si discuterà del contesto storico nel quale è nato il termine “eutanasia” per denunciarne il suo cattivo utilizzo per ciò che riguarda le procedure attuali del fine vita.

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Timeoutintensiva.it, N°19, Cover, Dicembre 2011

Neuroetica: Leggere la Mente: Guarda cosa Vedo, Penso e Immagino (o quasi ! ). Video.

Editoriale

Etica e Neuroscienze

Sarà Possibile In Futuro Leggere La Nostra Mente, E Nella Mente Di Comatosi E Vegetativi ? Dubbi e Implicazioni. Video

Nell’Ultimo Numero di Timeoutintensiva.it mi sono occupato di Neuroetica e di Tecnologie Mindreading, cioè di quelle tecnologie attrraverso le quali oggi si tenta di Leggere la mente. Nell’articolo al quale vi rimando,“Neuroetica:MinorityReport, le Neurotecnologie “Mindreading” ed il Libero arbitrio”, riportavo ad un certo punto le parole di Nikolas Rose proprio su queste tecnologie e scrivevo:

“Negli ultimi decenni, vi è stato uno spostamento nel guardare alla mente e al cervello, come “coestensive”, e le nuove tecnologie come la Tomografia Computerizzata (nel 1960), La Tomografia Computerizzata ad Emissione Singola di Fotoni (SPECT), la Tomografia ad Emissione di Positroni, la Risonanza Magnetica (nel 1980 ) e, più recentemente, la Risonanza Magnetica Funzionale hanno segnato alcuni progressi nel “vedere” il cervello “vivere”. Nikolas Rose, Professore del James Martin White of Sociology, e Direttore del LSE’s BIOS, Centre for the Study of Bioscience, Biomedicine, Biotechnology and Society, UK, afferma, a questo proposito che, “la maggior parte di coloro che fanno uso di queste tecnologie, scrivono come se ora fossimo in grado di visualizzare l’interno del cervello umano e di osservarne la sua attività in tempo reale, in quanto pensa, percepisce, risponde emotivamente, e desidera; come se si potesse vedere la ‘mente’ in attività nel cervello mentre “vive”. E’ stato riportato che un gruppo di neuroscienziati del Max Planck Institute for Human Cognitive and Brain Sciences hanno, per esempio, recentemente annunciato una tecnica, usando scansioni cerebrali ad alta risoluzione, che essi sostengono renda possibile la capacità di guardare “dentro” il cervello dei soggetti, al fine di leggere le intenzioni della persona. Più in concreto, l’US Department of Homeland Security sta già testando una serie di sensori e tecnologie di imaging che leggono la temperatura corporea, la frequenza cardiaca e respiratoria come  “segni dell’ inconscio”, invisibile ad occhio nudo.” Studi che sono portati avanti e voluti fortemente dai think-tank militari e di intelligence del nostro mondo per essere usati più che a finalità biomediche, a scopi spionistici e militari. Cosa che fa nascere grossi problemi etici che ho affrontato nell’articolo su riportato.

Poi sul Sole 24 ore on line del 6 ottobre 2011 è uscito un articolo dal titolo “Guarda cosa penso (o quasi)” di Martin Monti che si chiedeva: è possibile guardare nella mente di qualcuno e sapere cosa stia pensando? Riportando uno studio appena pubblicato su «Current Biology», nel quale un gruppo di ricercatori della University of Berkeley, California, ha mostrato che è possibile ricostruire, a partire da registrazioni dell’attività cerebrale, quello che una persona sta vedendo. «Utilizzando sofisticate tecniche computazionali, stiamo creando un vocabolario che ci consenta di tradurre immagini in attività cerebrale e viceversa», spiega Jack Gallant, coautore del lavoro. Il gruppo ha osservato le attivazioni neurali di tre volontari sotto risonanza magnetica funzionale mentre guardavano brevi estratti di alcuni filmati. Queste attivazioni sono state mandate a un computer che, utilizzando opportuni algoritmi, ha “imparato” la corrispondenza fra determinate immagini, come la presenza di un volto, e la risposta cerebrale. Così, quando successivamente i tre volontari hanno guardato dei nuovi filmati, il computer ha potuto ricostruire ciò che vedevano a partire dalla sola attività cerebrale. Questa nuova tecnologia apre le porte a una migliore comprensione di come il cervello riesca a trasformare un mondo esterno, dinamico e ricco di informazione, in rappresentazioni interne. Lascia inoltre intravedere potenziali applicazioni in campo clinico, soprattutto nell’ambito di pazienti con gravi lesioni cerebrali. Una delle più grandi sfide di fronte a pazienti di questo tipo è poter valutare quanta attività cerebrale sia ancora intatta, e se questa attività sia sufficiente a dar luogo a uno stato di coscienza. Questa tecnologia potrebbe in futuro consentirci di stabilire, almeno per quanto riguarda le immagini visive, il livello di funzione cerebrale di pazienti paralizzati, non coscienti o con altre patologie che impediscono loro di esprimersi. Ma quello che questa tecnologia non ci consente di sapere è se a questa attività cerebrale corrisponda uno stato di coscienza fenomenologica, cioè la presa di coscienza di un’immagine e le sensazioni che vi si accompagnano.

In aggiunta Adrian Owen, grande “ricercatore dei misteri della mente”, ha cercato di rispondere alla domanda che molti si fanno sul fatto se sia possibile comunicare con le persone in coma, e sembra, a detta sua,  che questo interrogativo abbia finalmente trovato una risposta. Gli studiosi dell’Addenbrooke’s Hospital di Cambridge e dello University Hospital of Liege, in Belgio, hanno infatti scoperto che le persone in stato vegetativo permanente non soltanto potrebbero essere in grado di capire cosa gli si sta dicendo, ma anche di seguire le indicazioni per pensare a determinate cose.

Durante gli esperimenti, infatti, ai 16 pazienti ospedalieri coinvolti nello studio, è stato chiesto di immaginare movimenti della mano destra e delle dita. Lo stesso test, è stato condotto anche su 12 persone sane.

Le onde cerebrali sono state registrate attraverso l’elettroencefalogramma (Eeg), con elettrodi applicati sulla testa che captano l’elettricità dei neuroni che si attivano, e quindi l’attività cerebrale. Dei 16 pazienti in coma, 3 hanno immaginato in modo ripetuto e affidabile, come sottolineato dai ricercatori, i movimenti della mano e delle dita, nonostante fossero, dal punto di vista comportamentale, completamente insensibili.

Come ha dichiarato il dottor Adrian Owen, che ha curato lo studio:

“I nostri risultati dimostrano che l’Eeg è in grado di identificare la coscienza “nascosta” nei pazienti in stato vegetativo permanente con un grado di precisione molto elevato. Si tratta di una tecnica molto economica e pratica, che potrebbe un giorno essere impiegata per stabilire una routine di comunicazione a “due vie” con il paziente.”

Fino ad oggi, infatti, si riteneva che il paziente in stato vegetativo sentisse lo stimolo, ma non fosse in grado di produrre una risposta. Lo studio, perciò, rappresenta un tassello importante della ricerca riguardo a un tema estremamente delicato come quello del coma anche se svolto su un numero minimo di pazienti. Ed il battage pubblicitario che gli si è dato dimostra quanto questi studi siano considerati il futuro della ricerca medica sulla possibilità del “Leggere la Mente”

E allora viene da chiedersi: E’ arrivato il momento in cui i nostri pensieri non saranno più privati e potranno esserci letti e/o estratti contro la nostra volontà?  Per la scienza di oggi cercare di leggere la mente umana è un po’ come cercare di leggere un libro di cui conosciamo a mala pena la lingua con un paio di occhiali sfuocati.

Sottolinenado, come si legge tra le righe di queste ricerche, che queste tecniche lontano dall’essere risolutive del problema presentano il difetto di fondo di essere ancora troppo giovani e non controllate nè confermate. Un pensiero è un pensiero un’area attivata cerebrale è un’altra cosa. Come si può dire infatti e con certezza, da una serie di spikes in un Eeg, che il paziente ha immaginato e soprattutto cosa abbia immaginato ?

Savas


Fonti:

Rose N.: “The Biology of Culpability: Pathological Identity and Crime Control in a Biological Culture.” Theoretical Criminology 2000; 4(1):5-34.

Martin Monti: “Guarda cosa penso (o quasi)” 16 ottobre 2011, Sole 24 ore on line

Shinji Nishimoto, An T. Vu, Thomas Naselaris, Yuval Benjamini, Bin Yu, Jack L. Gallant, «Reconstructing Visual Experiences from Brain Activity Evoked by Natural Movies», Current Biology, 22 September 2011


“Bedside detection of awareness in the vegetative state” Adrian Owen et Alii, Lancet, Web.me.com

Scienze Infermieristiche: Essere Competente! Saper Descrivere E Narrare Il Proprio Agire Professionale !

Scienze Infermieristiche

Editoriale

Essere Competente! Saper Descrivere E Narrare Il Proprio Agire Professionale !

di: S. Giammona, S. Egman, M. Ziino Colanino, G. Cappello, R. Lombardo, F. Marchese

Nursing Education Department ISMETT  (Istituto Mediterraneo dei Trapianti, Palermo)

Non crea difficoltà interpretative definire “competente” colui che è “capace di svolgere bene un determinato compito o professione”. Questo termine valorizza quello che una persona sa fare, indipendentemente da come lo ha imparato. Si valorizza cioè l’apprendimento non formale in contrapposizione all’apprendimento ottenuto attraverso un corso di studi. In questo senso il termine ‘competenza’ indica “quella generica qualità, non meglio specificata, posseduta  da una persona che si dimostra competente’”.

Il punto che crea difficoltà è invece come individuare una persona competente (in sanità).

Quando osserviamo una persona mentre svolge la propria attività lavorativa, possiamo notare come alcune sue caratteristiche personali (conoscenze, capacità tecniche e trasversali, atteggiamenti, personalità, etc.) determinano la sua “Performance” e per certi aspetti la Sua professionalità. Per individuare una persona competente, possiamo focalizzarci sulle sue caratteristiche personali da cui può dipendere una prestazione lavorativa di buon livello.

Le competenze non sono però elementi ‘reali’ allo stesso modo di caratteristiche personali quali capacità e interessi. Il termine ‘competenza’ è solo un’etichetta utilizzata per indicare, fra tutte le possibili caratteristiche personali esistenti, quelle di volta in volta ritenute significative. Il termine permette di riferirsi a tali fattori senza doverli ogni volta elencare (conoscenze, capacità trasversali, capacità tecniche, tratti caratteriali, atteggiamenti, attitudini, credenze di autoefficacia, autostima, etc..)…. Continua


Per leggere l’intero articolo e comprendere l’ iter ed i modelli per determinare e definire le competenze in sanità Clicca qui


Timeoutintensiva.it, N° 18, Nurse Science, Ottobre 2011


Test di Ammissione a Medicina: La “Grattachecca” e la Deriva dello “Shibolleth”

Editoriale

Test di Ammissione a Medicina: La “Grattachecca” e la Deriva dello “Shibolleth”

Leggo su un quotidiano datato 10 settembre, del Test per l’Ingresso a Medicina sottoposto agli studenti, futuri medici, che lo hanno tentato presso la prestigiosa Università La Sapienza di Roma, e di una delle domande fatte nel test, che secondo il quotidiano suonava così: “Nei pressi del liceo Tacito di Roma si trova la grattachecca di Sora Maria, molto nota tra i giovani romani. Sapresti indicare quali sono i gusti tipici serviti ?”. Così ho colmato una mia “ignoranza” medica, dato che approfondendo l’articolo ho appreso che la “grattachecca”, specifica domanda, ripeto, dei test per accedere a Medicina, è ghiaccio grattato da un blocco unico, con aggiunta di sciroppo, da noi qui al Sud più Sud, chiamata “granatina” (ma non saprei in dialetto).

Ma vuoi vedere, mi sono detto, che dopo 30 anni spesi interamente nella mia professione di Anestesista Rianimatore con una specializzazione anche in Gastroenterologia, non sapere cosa fosse la Grattachecca e dove a Roma si mangiasse, ha causato una enorme e non colmabile mancanza, nella mia cultura medica e messo in pericolo i miei pazienti ? E grande è stato il mio dispiacere, per questa mia profonda ignoranza culinaria, quando ho letto che il Rettore stesso della Sapienza ha difeso la domanda dicendo: “Era una domanda a cui avrebbe saputo rispondere anche un co…” (cretino, traduco io, non volendo ripetere la parolaccia che il giornale gli attribuisce, e che sono certo sia un refuso del giornale stesso), aggiungendo che “chi risponde bene a questi test poi, negli anni a venire, si afferma come ottimo medico”.

Innervosito da questa mia “impagabile mancanza” da “co…”, ho letto sul quotidiano, per approfondire, anche l’articolo critico di spalla, dedicato a questo argomento, scritto da quella “testa” che è Stefano Bartezzaghi, dal titolo “La Deriva della Cultura Etnica”; che, partendo dalla domanda “Tortellini in brodo o al ragù ?”, che un famoso professore emiliano faceva ai suoi esaminati per dare loro il trenta e lode, negato se rispondevano “al ragù”, mi ha spiegato che ormai in Italia siamo alla moda del “Tic Linguistico” (tecnicamente detto “shibolleth”), che identifica lo straniero quasi come un potenziale nemico. Ed allora ho pensato: “se così è, si arriverà a fare una sezione dei quiz Etnica ed a parte, in cui si chiederà, per saggiare le tante etnie, magari: “Dove si mangia ” ‘U pani ca’ mieusa ?” (il pane con la milza, specialità palermitana), e se “è fatto con le fettine di Milza o di Polmone (per trovare un aggancio con la nostra scienza) o con tutte e due (risposta multipla !); o magari ai veneti chiederanno “Come è fatta e che cos’è la “Pearà”? per sapere se sanno che è una crema di midollo di bue (midollo osseo e medicina ci sta!).

Bene, mi sono detto alla fine, se un mio paziente domani mi chiederà: “sa che cosè la grattachecca?”, finalmente gli risponderò con fare sicuro: “una granatina”, e lui saprà da che pozzo di scienza di medico è curato.

Tornando alle cose serie, credo che un test così fatto non sia altro che una lotteria, quasi un gratta e vinci della cultura, e che di medico non abbia nulla; si dovrebbe trovare una maniera diversa per testare le attitudini alla professione degli aspiranti medici. Una maniera che riesca ad indagare della tendenza più che al curare, al “prendersi cura” del nostro candidato, della sua inclinazione alla conoscenza della materia “uomo”, sia organica che psicologica ; che ci dica della umanità verso il prossimo, che lo stesso dovrebbe possedere; e infine, che ci illumini sulla sua tendenza e capacità speculativa ad assimilare ed approfondire, più che imparare, materie scientifiche mediche, ed a comprendere il dolore dell’altro e ad alleviarlo, oltre che curarne  le tante patologie che lo affliggono.

Capisco che questo mio desiderio (irrealizzabile forse) è “volare alto”, e che sino a quando ci saranno i tests, potremo sapere molto poco sulle attitudini alla professione del nostro futuro collega.

Ma, tristemente, oggi che so finalmente cos’è la “Grattachecca”, che mio padre mi faceva mangiare da bambino col nome granatina, posso dire di essere un medico migliore.

Savas

PS: Limitandoci ai Test, che io non amo, devo comunque ammettere che ce ne sono stati di serissimi, come quelli svolti presso l’ Università di Palermo