Su Neuroethics, nel Marzo 2009, è uscito un interessante articolo, “Novel Neurotechnologies in Film—A Reading of Steven Spielberg’s Minority Report”, di Krahn, Fenton, (Bioeticisti che si occupano di Nuove e Neuro Tecnologie), e Meynell, (Filosofo), attraverso il quale, – insieme alla ricca bibliografia sull’argomento-, si comprende come le nuove neurotecnologie, al di là dell’aiutare la nostra vita quotidiana e la nostra salute, ed affiancarci nel nostro “libero arbitrio”, al contrario possano essere mostrate (e usate poi nella realtà) come mezzo attraverso il quale aumentare il controllo sulla nostra libertà, per limitarla. Obiettivo quest’ultimo che non rientra affatto nella moderna ricerca sulle nuove neurotecnologie.
Di tutto ciò il Cinema, specie quello che guarda al futuro, ne ha percepito talmente il carattere potenziale “di controllo e di limitazione della nostra libertà”, che spesso mostra, delle nuove neurotecnologie, l’uso distorto che se ne può fare per il nostro “bene”…
“In ogni nuova tecnologia, -neurotecnologiche incluse-, vi è spesso un senso di promessa e contemporaneamente di pericolo, ed una tendenza ad immaginare gli estremi di entrambi. Neil Levy articola il nucleo di questo disagio, suggerendo che: “Gran parte degli interessi e l’ansia provocata dalle nuove tecnologie, e lo sviluppo delle neuroscienze, è centrato su due questioni: la misura con cui queste tecnologie potrebbero consentire ai loro utenti di leggere i pensieri delle persone, e… la misura con cui queste tecnologie potrebbero effettivamente essere utilizzate per controllare le persone stesse.”
Come sappiamo, ormai nella sanità del nuovo millennio, non si può più fare a meno di considerare i costi e di cercare di razionalizzarli. Specie là dove le industrie Farmaceutiche ne impongono di elevatissimi
L’onere dei tumori infatti è in crescita, e la malattia conseguente sta diventando una spesa economica importante per tutti i paesi ad alto reddito. Nel 2008 il costo mondiale per cancro a causa di morte prematura e di disabilità (non comprese le spese mediche dirette) è stato stimato in 895 miliardi di dollari. Un gruppo di 37 esperti guidati dal professor Richard Sullivan del King’s College di Londra in un articolo pubblicato su Lancet Oncology del Settembre 2011 ha lanciato un appello affinche’ vengano negate ai malati terminali di cancro quelle costosissime medicine che danno loro solo “false speranze”, quando in realta’ non hanno piu’ alcuna speranza. Secondo i 37 ricercatori ai malati terminali non dovrebbero essere prescritte nuove terapie non sperimentate ma soltanto cure palliative, perche’: “i dati dimostrano che nelle ultime settimane e mesi di vita dei malati si registra un’impennata dei costi, per cure che non solo sono inutili, ma anche contrarie agli obiettivi e alle preferenze di molti pazienti e famiglie, se fossero stati adeguatamente informati delle loro opzioni”. Nella sola Gran Bretagna il costo delle terapie oncologiche e’ salito in 8 anni a oltre 5 miliardi di sterline dai 2 miliardi del 2002. Sono quindi richieste urgenti soluzioni, che vanno dal ripensare alla base macroeconomica dei costi del cancro (per esempio, piegare la curva dei costi consentendo un risparmio sulla spesa, per i costi delle tecnologie impiegate), ad una maggiore educazione dei responsabili politici, ad un sistema informato e trasparente. C’è bisogno di prezzi equi nei farmaci, e di una spesa il più vicino possibile al valore reale delle nuove tecnologie. Dato che è questo il problema. Noi oggi pieghiamo la nostra salute e la nostra economia sanitaria, al valore dei devices e dei farmaci con cui ci curano, causato dagli alti costi proprosti dalle case produttrici e farmaceutiche. Un paradosso in fondo, uno dei tanti che vi sono in questa sanità globalizzata.
Prof Richard Sullivan MD, Prof Jeffrey Peppercorn MD , Prof Karol Sikora FRCP, Prof John Zalcberg FRACP, Prof Neal J Meropol MD, Eitan Amir MBChB, David Khayat MD, Prof Peter Boyle PhD,et Alii
The Lancet Oncology, Volume 12, Issue 10, Pages 933 – 980, September 2011
La Mela, Le Aziende Hi Tech, e il Gioco delle Tre Scimmiette
Era il 1989 quando ricevetti in regalo il mio primo computer, un Apple Classic. Allora non c’era ancora la rete, l’uso di quel computer era intuitivo, facile, non si imballava mai, aveva un ottimo sistema di scrittura, tutto era perfetto. Da allora ho continuato a comprare Apple computer seguendo i molti cambiamenti che l’azienda di Cupertino ha fatto sino ad oggi. Qualche anno fa nacque il nuovo sistema operativo Mac Os Intel e l’ iPod; poi fu prodotto il primo iPhone, uno smartphone molto avanzato come tecnologia, di fascia alta, e il tablet iPad. Ed è con la nascita di questi “gadget” che Apple nell’ottica di una scalata commerciale che oggi la porta ad essere la prima azienda informatica al mondo come fatturato, ha delocalizzato la produzione e l’assemblaggio dei suoi prodotti verso la Cina, dove i costi di produzione sono bassissimi. Ma la scalata commerciale e la delocalizazione hanno portato anche tante “mele bollenti” in casa Apple, che riguardano la salute di coloro, tutti giovani, che producono questi apparati, che, ed è con vero dispiacere che lo scrivo, ne hanno sofferto a volte in maniera irreparabile. E verso cui la Apple, spesso si è comportata come le tre scimmiette di “io non vedo non sento non parlo”. Ma come giungono nelle nostre case i “devices” Hi Tech ? Pochi di noi hanno la curiosità di conoscere la catena produttiva dei gadget che acquistiamo. Ed io, che sono un convinto assertore e sostenitore dei prodotti Apple, per dovere di verità, ve la racconto. Ed anche perchè non si può più prescindere, eticamente, dal conoscerla.
savas
All’Origine delle nuove tecnologie:
Prima però di parlare delle Mele Bollenti scoppiate, con la delocalizzazione in Cina, tra le mani della Apple, bisogna risalire all ‘origine di tutto ciò, e parlare di una sostanza usata in tutti i device di qualsiasi marca e natura, dai cellulari che usiamo alle navi spaziali, passando per i portatili e gli smartphone. Tutti contengono Columbite-tantalite (Coltan). Che rappresenta il primo anello della catena produttiva dell’Hitech.
Coltan: Da questo raro minerale si estrae il tantalio, che possiede una grande resistenza al calore e un’eccellente conduttività, per la qual ragione è imprescindibile nella fabbricazione delle nuove tecnologie. Tutte contengono Coltan. La maggiore riserva di questo materiale si trova nella Repubblica Democratica del Congo che ne possiede l’80% esistente sul pianeta, e che si trova precisamente nella zona di un conflitto, quello congolese, che ha già fatto milioni di vittime. Tutto fa pensare che dietro al conflitto ci sia anche il Coltan. La Cina è uno tra i maggiori importatori di Columbite-Tantalite. Potrebbe sopravvivere il mondo occidentale alla scarsità di coltan? La risposta è no. Andrebbero in rovina le multinazionali e si verificherebbe un collasso economico, soprattutto in presenza della crisi globale che stiamo vivendo. Ma le miniere di Coltan sono quasi tutte illegali, specie nell’uso al loro interno di forza lavoro minorile, cioè bambini: alcuni sono obbligati a lavorare nelle miniere di Coltan a una grande profondità perché sono gli unici che riescono a scendervi; migliaia di loro muoiono sepolti, di fame e per lo sfinimento. Si calcola che per ogni chilo di Coltan estratto muoiano due bambini. E tutte le multinazionali Hi Tech, di fronte a questi dati, giocano il gioco delle tre scimmiette.
Ed ora occupiamoci della Mela:
Mele Bollenti uno: N-esano*
Le Reti "Antisuicidio" Attorno alla Fabbrica
Siamo a Suzhou, ovest di Shangai: qui opera la Wintek, sussidiaria della Apple e produttrice dello schermo ‘soft touch’ dell’iPhone. Nel 2009, 137 operai cinesi vengono intossicati da un composto chimico chiamato N-esano, un solvente generalmente usato nella lavorazione della benzina, delle colle e dei solventi, ma in questo caso utilizzato per pulire gli schermi dei telefonini. L’avvelenamento provoca una Polineuropatia tossica, con dolori diffusi, stanchezza cronica, sudorazione. Molti finiscono all’ospedale, altri organizzano uno sciopero, fino alla decisione sette mesi più tardi della stessa Wintek di sospendere l’uso dell’n-esano, quando un’indagine sanitaria interna accerta che i malesseri sono dovuti al suo utilizzo. La Wintek ha così pagato le spese mediche, l’alimentazione e gli stipendi agli operai ammalati, secondo la legge cinese. Ma nessun risarcimento, sembra, sia giunto ancora dalla Apple che ha riconosciuto la responsabilità della Wintek, “vincolata – secondo il rapporto sulla corporate responsability – al rispetto del codice di condotta Apple”.
Mele Bollenti due: Foxconn
La “Foxconn International Holdings Ltd” è una azienda consociata alla “Hon Hai Precision Industry Co Ltd” (HHPD), una compagnia di Taiwan che possiede il più vasto controllo del mercato dei componenti elettronici. HHPD lavora per conto di quasi tutte le più prestigiose e potenti aziende mondiali dell’elettronica. La più estesa base produttiva della HHPD si trova a Shenzhen, in Cina. La fabbrica si presenta come una vera e propria città, viene infatti chiamata “Foxconn City”. Al suo interno vivono dai 300,000 ai 450,000 lavoratori, che vi passano tutta la loro vita giornaliera. La gran parte dei componenti assemblati e prodotti a Shenzhen sono iPod, iPhone e iPad di Apple, tanto che la “città” fu ribattezzata all’epoca con il nome “iPod City”.
Suicidi: Sino al 2010 almeno 17 dei suoi operai si sono suicidati. Fra questi la maggior parte si sono lanciati dalle finestre dei dormitori situati all’interno del quartier generale, tutti ragazzi fra i 18 e i 24 anni che, afflitti dal trattamento inumano al lavoro, hanno preferito lanciarsi nel vuoto. I lavoratori che in media non superano i 30 anni di età, e che provengono da ogni parte della Cina, alla stipula del patto d’assunzione, ricevono un letto e 1200 yuan mensili (146 euro). Il tutto per garantire la continuità del ciclo produttivo: lavorare, smontare, andare a dormire.
La Hon Hai Precision Industry Co Ltd, che controlla Foxconn, sempre nel 2010, ha così lanciato e con successo, un programma di prevenzione dei suicidi (tra cui le reti anti-suicidio che circondano la fabbrica e che vedete nella foto ), e aumentato sensibilmente i salari dei lavoratori (aumento del 70 percento dei salari annunciato dai vertici dell’azienda cinese. Da 1200 yuan, del pre-crisi, si è arrivati a toccare quota 2000 yuan (244 euro) mensili.). Ma la Students & Scholars Against Corporate Misbehaviour (Sacom), una Ong con sede a Hong Kong, denuncia come false le dichiarazioni di Foxconn. Per farlo, ha diffuso un video (che vi mostriamo) per documentare le condizioni di lavoro allo stabilimento di Chengdu, nel Sichuan, dove si produce esclusivamente per Apple (lì si assembla l’iPad). Il filmato è sottotitolata in inglese. Le riprese risalgono a marzo-aprile 2011. La Ong di Hong Kong diffonde questo video per informare, sensibilizzare le autorità cinesi di vigilanza e i i consumatori di tutto il mondo.
Come se non bastasse, nel Maggio 2011 un incendio scoppiato nella fabbrica per un cortocircuito ha avuto effetti decisamente preoccupanti sulla salute dei lavoratori, con ben 2 morti e 137 operai intossicati.
Oggi la Foxconn, sembra avere esaurito il suo potenziale di sfruttamento della forza lavoro, poiché ha annunciato un mese fa di voler far ricorso a robot per la produzione dell’iPad. Attualmente in tutto il complesso industriale sono distribuiti circa 100.000 robots automatizzati. L’aumento previsto di questa cifra è di 200.000 unità, l’obiettivo da raggiungere è infatti 300.000 robot entro la fine dell’anno. Questi dovrebbero poi diventare oltre un milione nel giro di tre anni. Attualmente l’azienda ha 1.2 milioni di dipendenti, di cui 1 milione solo sul territorio cinese. Inoltre sembra che voglia spostare il grosso della produzione (tra cui l’iPad 2) in Brasile, riabilitando e allargando alcune fabbriche locali di proprietà della Foxconn.
La Apple intanto dopo vari sopralluoghi nella fabbrica pensa, forse, di affiancare un altro partner alla Foxconn nella produzione dei suoi componenti elettronici
Mele Bollenti tre: Molleindustria
E’ di qualche giorno fa la notizia che Molleindustria, un collettivo italiano le cui produzioni si collocano a metà fra la videoludica e l’arte di opposizione, segnalava su Twitter la pubblicazione sull’Apple – App Store di Phone Story, il “primo gioco anti-iPhone per iPhone”. Nell’app il giocatore deve ripercorrere la catena produttiva che porta alla creazione dei dispositivi come l’iPhone, a partire dall’estrazione del Coltan nelle miniere illegali in Congo, fino all’assemblaggio del device presso gli stabilimenti Foxconn. Con un interessante corto-circuito socioeconomico, tutti i ricavati della vendita dell’applicazione sarebbero stati devoluti per intero alle associazioni per la tutela dei lavoratori delle fabbriche in cui gli smartphone vengono prodotti. Peccato che poche ore dopo la pubblicazione del gioco, lo stesso fosse già scomparso dall’ Apple – App Store, epurazione avvenuta a causa della violazione di quattro punti delle linee guida per gli sviluppatori.
Termino questo lungo post, con le parole di Joel Johnson scritte su wired.com: “Quando si spezza quel filo che lega il nostro consumo ai milioni di esseri senza nome che ci consentono il nostro stile di vita, ci troviamo a guardare un abisso – un futuro senza fine, su un pianeta vuoto ed esausto – veramente intollerabile.”
News: Lotta All’Aids: Un Videogame Riesce, Là Dove I Ricercatori Avevano Fallito
Accaniti giocatori sono riusciti dove ricercatori e computer avevano fallito per 15 anni: individuare la struttura di una proteina fondamentale per la trasmissione dell’Aids
Tutto è iniziato nel 2005, quando è stato lanciato il progetto non profit Rosetta@home allo scopo di determinare la forma tridimensionale delle proteine, all’interno di ricerche, che avrebbero portato alla scoperta di cure, per alcune delle più importanti malattie umane. I ricercatori statunitensi, infatti, avevano chiesto agli internauti di scaricare sul loro computer un software che, nei momenti di inattività del pc, lavorasse per determinare la forma tridimensionale di proteine ancora sconosciute, così da aiutarli nel progettare nuove proteine per combattere malattie come l’HIV, la Malaria, il Cancro e l’Alzheimer. Il successo dell’applicazione fu così grande (migliaia di volontari hanno aderito al progetto) da spingere i ricercatori a fare di più, e a coinvolgere attivamente le persone nella soluzione dei puzzle strutturali delle molecole proteiche. Considerando che le proteine sono formate da centinaia di aminoacidi, infatti, spesso i calcoli richiedono molto tempo ed è possibile che l’intuizione umana possa farne risparmiare un po’. Ecco perché, nel 2008, gli scienziati hanno creato una interfaccia al programma Rosetta@home, per permettere una maggiore partecipazione e creatività.
Così è nato Foldit, un vero è proprio videogame, in cui i giocatori, che possono riunirsi in squadre, competono nel progettare proteine o individuare la loro struttura tridimensionale. In che modo? L’applicazione mostra una prima rappresentazione grafica della struttura 3D della molecola proteica (ottenuta partendo dalla forma di proteine simili già note o da calcoli energetici), che l’utente può manipolare alla ricerca della configurazione a minor energia, che è quella biologicamente più probabile. Le loro proposte vengono quindi inviate ai biochimici per aiutarli a perfezionare i loro modelli teorici. Il videogioco era stato creato dall’ Università di Washington, negli Usa, che hanno fatto di più che rendere la scienza accessibile al grande pubblico: hanno reso il grande pubblico protagonista della ricerca.
Il puzzle è rappresentato dalla immagine 3D di una classe di enzimi chiamati proteasi retrovirali, cioè proteine coinvolte nella replicazione e proliferazione dei virus che causano l’ Aids, di cui è necessario comprenderne prima di tutto la forma. Non essendoci riusciti con la cristallografia a raggi X (il metodo più usato per determinate la struttura delle proteine, molto lento e costoso) e con gli algoritmi di Rosetta, i ricercatori hanno tentato con Foldit. “ Volevamo vedere se l’intuizione umana potesse avere la meglio sui metodi automatici”, ha spiegato su Science Daily, Firas Khatib dell’Università di Washington. E l’idea si è dimostrata vincente.
E’ stato infatti proprio giocando in questo modo che, in sole tre settimane, è stato risolto un rompicapo con il quale i ricercatori erano alle prese da ben 15 anni.
In poche settimane, infatti, i giocatori hanno generato un modello tridimensionale energicamente plausibile dell’enzima M-PMV, coinvolto nella replicazione del virus. Raffinando il modello, poi, i ricercatori hanno finalmente determinato la struttura della proteina, che si è inoltre rivelata sensibile all’azione di farmaci antiretrovirali. Perché, alla fine, è questo l’obiettivo di Foldit: svelare la forma tridimensionale delle proteine per sviluppare farmaci capaci di bloccarne l’attività. Seth Cooper, uno dei creatori di Foldit, spiega nello studio perché i giocatori sono riusciti là dove i computer hanno fallito: “ Le persone hanno abilità di ragionamento spaziale che i computer non hanno. Questi videogiochi riescono a unire la forza del cervello umano alla potenza delle macchine, e i risultati di questo studio mostrano che i videogiochi, la scienza e la computazione possono raggiungere traguardi prima impensabili”.
Foldit è, come già detto, un videogame online molto particolare, e, a suo modo, appassionante. Lo scopo del gioco è trovare la forma delle proteine. Ma cosa si vince? Se si è particolarmente bravi, anche una firma su un’importante rivista scientifica. È questo il premio che si sono aggiudicati alcuni giocatori per aver scoperto niente meno che la struttura di un enzima indispensabile alla replicazione di un retrovirus che causa la sindrome da immunodeficienza acquisita nei macachi resus. Dal momento che il retrovirus appartiene alla stessa famiglia dell’ Hiv, scoprire come sono fatte le sue proteine aiuterà anche la ricerca contro l’ Aids. Lo studio che descrive questo importante enzima è ora pubblicato su Nature Structural & Molecular Biology.
IL progetto è stato supportato da UW Center for Game Science, l’ U.S. Defense Advanced Research Projects Agency (DARPA), L’ U.S. National Science Foundation, The Howard Hughes Medical Institute, e dalla Microsoft Corporation
Potremmo dire in altri termini che, se il Web 2 è condivisione in rete di contenuti, con questo videogames siamo già al web 3, che è creazione di contenuti condivisi e migliorati a più mani. Una ricerca scientifica fatta con il contributo determinante di molti internauti.
Firas Khatib, Frank DiMaio, Seth Cooper, Maciej Kazmierczyk, Miroslaw Gilski, Szymon Krzywda, Helena Zabranska, Iva Pichova, James Thompson, Zoran Popović, Mariusz Jaskolski & David Baker
Nature Structural & Molecular Biology (2011) Published online 18 September 2011
ECMO, Ipotermia Terapeutica post Arresto Cardiaco, Trapianto di Polmoni: Il Caso di Valerio
Riporto la notizia come si è appresa dai giornali… ma chi conosce le tecniche Rianimatorie e lavora in Terapia Intensiva e/o si occupa di Trapianti d’ Organo può facilmente capire quanto lavoro umanità e professionalità, vi è stato dietro questo caso clinico ancora in evoluzione, sperando che il paziente possa tornare presto alla sua vita di tutti i giorni:
Valerio D. S., 24 anni, giovane receptionist di un albergo genovese, era malato di fibrosi cistica, patologia genetica che gli era stata diagnosticata a 12 anni, ma, racconta la madre, “si era aggravato negli ultimi due anni – ed a luglio di quest’anno ha avuto uno pneumotorace, cui è seguita una infezione polmonare che ha richiesto il ricovero in rianimazione al Gaslini (di Genova), dove sono stati bravissimi e hanno contattato le Molinette di Torino affinchè mio figlio fosse preparato e poi operato per un trapianto di polmoni. Non c’erano altre possibilità, nessun’altra strada da percorrere”. Da Genova Valerio arriva a Torino il 26 agosto scorso nel reparto di rianimazione universitaria diretto da Marco Ranieri , responsabile del Centro Ecmo delle Molinette: «Vista la grave insufficienza respiratoria – spiega Ranieri – lo abbiamo sottoposto a Ecmo (tecnica di circolazione extracorporea utilizzata in rianimazione per i pazienti con insufficienza cardiaca o respiratoria acuta grave, la stessa utilizzata per i pazienti affetti da grave distress respiratorio causato dall’influenza A/H1N1) e contestualmente messo in lista per il trapianto, con codice rosso. In altre parole Valerio diventa il primo nella lista nazionale dei pazienti da sottoporre a trapianto. Si tratta “solo” di aspettare un donatore. È in questo momento che la situazione precipita: il 4 settembre il ragazzo ha un arresto cardiaco di venti minuti, un tempo limite alla vita. «Non ci siano arresi, abbiamo fatto di tutto per far ripartire il cuore – racconta Ranieri – e deciso di sottoporlo per ventiquattro ore a ipotermia» per evitare ulteriori danni cerebrali dovuti all’ipossia cerebrale conseguente all’arresto di circolo. La temperatura corporea di Valerio, tramite la tecnica della ipotermia terapeutica, è stata così abbassata e tenuta costantemente tra i 28 e i 30 gradi. In quelle 24 ore – e «questa è una circostanza davvero toccante» prosegue il primario – alle Molinette sono arrivati i polmoni da trapiantare, ma Valerio non poteva riceverli date le gravi condizioni generali. Così gli organi destinati a Valerio sono stati dirottati a un altro paziente in lista d’attesa. Ma quando, il giorno seguente, il neurologo ha assicurato al rianimatore e al chirurgo che, grazie all’ipotermia, all’Ecmo e alla ventilazione assistita, Valerio si era svegliato senza danni cerebrali, è stato deciso di rimetterlo in lista per il trapianto. «Mi lasci dire – prosegue Ranieri – che il mio collega Rinaldi ha avuto due attributi così. In altri paesi non ci pensano neppure a tentare il trapianto su un paziente simile trattato con Ecmo e ipotermia.Ma qui a Torino da una decina d’anni abbiamo alzato l’asticella delle tecniche rianimatorie e della chirurgia dei trapianti». Finalmente un pizzico di buona sorte: dopo pochi giorni si è reso disponibile un nuovo donatore. E Valerio è stato operato con successo. «Malgrado la situazione fosse avanzata e molto compromessa abbiamo deciso di andare avanti – spiega Mauro Rinaldi – perchè abbiamo creduto che ne valesse la pena di fronte a un paziente così giovane. É stato impegnativo ma sono arrivati ottimi risultati». Ai quali forse ha contribuito anche l’inesauribile voglia di vivere del paziente.
Operato il 10 settembre scorso alle Molinette di Torino dove è ricoverato, il ragazzo è ancora intubato «ma tra tre o quattro giorni -prevede Mauro Rinaldi, il chirurgo che gli ha trapiantato i polmoni – potremo passare alla ventilazione spontanea». Significa che Valerio, potrà respirare senza aiuti, parlare con i genitori e conoscere passo dopo passo la storia del suo quasi incredibile ritorno alla vita.
Valerio quindi è stato riportato alla vita da un insieme di tecniche combinate di rianimazione (Ventilazione assistita, Circolazione Extracorporea e Ipotermia Terapeutica) più il Trapianto di Polmoni, che dimostrano quanto elevato sia il livello delle cure intensive in Italia.