Il Cambiamento del Concetto di Morte Valutato Secondo il Significato Psicologico del Tempo
M.F. Sapuppo*, R. Barbiera*, D. Bongiorno** et Alii
*II Rianimazione ARNAS Ospedale Civico Palermo
**Dipartimento Salute Mentale 1 ASL 6 Via R. Riolo Palermo
A.P.I.C.E. Selected papers. Trieste 16-20/11/2001
Forse sarebbe giusto dire che i tempi sono tre, cioè un presente che riguarda le cose passate, un presente che riguarda le cose presenti, un presente che riguarda le cose future. E questi tre tempi sono nella mente, non altrove: il presente del passato è la memoria, il presente del presente è la visione, il presente del futuro è l’attesa….” Così scriveva Sant’ Agostino nelle Confessioni, ed è da queste considerazioni che ha preso avvio la nostra riflessione sul concetto di morte e “del tempo della morte e del morire” in Terapia Intensiva… Continua qui
Omaggio a Wilfred Bion: per una teoria gruppale della mente
N.d.R. Questa nota vuole essere un timidissimo omaggio ad uno tra i più grandi pensatori del ‘900 colui che sviluppo’ la Teoria Freudiana in maniera originale e che ha aperto orizzonti inimmaginabili. Dovendo occuparmi nel mio lavoro di gruppi sanitari, e non essendo un analista nè volendo esserlo ma avendo letto molte cose della produzione Bioniana spesso quelle più abbordabili che quelle tecniche, ho voluto con questa nota introdurvelo attraverso le parole della figlia e di appunti presi qui e là. Rendendola una nota un pò per tutti voi.
S. Vasta
L’apporto di Bion alla psicoanalisi
di Parthenope Bion Talamo
Quando prima ho detto dell’idea di Bion che l’essere umano è una sorta di palinsesto mi riferivo proprio a questa sua idea dell’individuo come un gruppo che si può quasi srotolare; non so se avete presenti i quadri di Klimt con i vasi cinesi o coreani srotolati come sfondo del quadro o come vestito della donna, l’idea di Bion di un individuo è un po’ di questo tipo qua, che se tu guardi dentro l’individuo vedrai un intero gruppo di persone.
Questo è un concetto molto interessante che ha, a mio avviso, delle radici molto lunghe anche nella cultura inglese. Direi che la forma letteraria o artistica che più di altre caratterizza la cultura inglese è proprio il teatro, la poesia e il teatro che nella figura di Shakespeare comunque si coniugano assieme. Tuttora il teatro in Inghilterra è una forma estremamente importante, un veicolo estremamente importante di comunicazione sociale. Negli anni ’50, probabilmente adesso la situazione non è cosi rosea, a Londra c’erano 500 teatri. Molti movimenti sociali e pacifisti, per esempio hanno avuto importante voce teatrale: basti pensare a … (incomprensibile nella registrazione il cognome dell’autore) per quanto riguarda tutta la politica irlandese. Per noi il teatro è significativo come forma di protesta sociale, denuncia sociale, descrizione della società. Credo che Bion abbia preso molto l’idea dell’individuo come gruppo da questa idea di cose che si possono vedere in un palcoscenico, cioè persone che si parlano tra loro e si forma un discorso coerente tra le varie voci.
In Inghilterra nel ’300 per esempio si fecero, come in molti paesi europei, delle recite il giorno di Corpus Cristi, delle storie bibliche. Questo però in Inghilterra ha avuto uno sviluppo che in altri paesi europei, che io sappia, non ha avuto; non si recitavano le storie bibliche ma si recitavano anche drammi, detti le moralità e misteri. Le moralità sono molto interessanti perché i personaggi in scena sono personaggi come la temperanza, l’ira, il pudore cioè qualità mentali a cui si da voce e che si fanno interagire tra di loro. Ora credo che Bion abbia avuto molto questo tipo di cosa anche sullo sfondo della mente scrivendo “Memoria del futuro”, che è un libro di 400-500 pagine di testo di cui i primi sette capitoli sono apparentemente di tipo narrativo. Tutti gli altri sono a forma di dialogo, dialoghi in alcune parti in cui i personaggi sono chiariti, altri in cui non si sa chi è che sta parlando ma che comunque è dialogato. Questo per me è qualcosa che Bion ha fatto con varie intenzioni non soltanto una; però una di queste intenzioni era proprio di far presente come un solo individuo in realtà parla con una molteplicità di voci, di cui se ne possono sentire poche contemporaneamente ma quasi sempre più di una.
Il dolore
Concetto centrale nella teoresi bioniana è quello del dolore. Per Bion il dolore e la crescita psichica sono inseparabili.
Da un lato, tale questione è intimamente collegata alle riflessioni dell’autore sulla memoria e sul desiderio: egli infatti dichiara espressamente che l’astinenza dalla memoria e dal desiderio risulta essere una “disciplina” disturbante, comportante “pericoli reali” e in questo senso dolorosa. Dall’altro si ricollega al tema della conoscenza e del cambiamento, che Bion, a ragione, definisce “cambiamento catastrofico”.
Infatti, ogni volta che, in un discorso circolare, una nuova conoscenza acquisita conduce a uno spostamento del vertice dal quale osservare la realtà (tanto esterna quanto interna) e la sperimentazione di un nuovo vertice di osservazione permette la presa di coscienza di nuovi fatti (nel senso in cui il termine “fatto”è inteso in Bion, si ha la frammentazione dei “vecchi” punti di riferimento cognitivi ed emotivi per giungere, ammesso che il corso degli eventi lo permetta, a una nuova ristrutturazione di campo.
La teoria gruppale della mente
“Non si può tralasciare … come in qualche modo la ricerca di Bion si
apra e si concluda … in una visione gruppale. Tanto da permetterci di concludere che l’originalità specifica di Bion è proprio rappresentata da una visione della mente caratterizzata da un funzionamento gruppale” (Viola, 1996, p. 70).
Il desiderio
Il discorso di Bion sulla memoria è complementare a quanto egli dice a proposito del desiderio: come la prima rimanda al passato, il secondo guarda al futuro ed entrambi distolgono dall’unica cosa che ha effettivo interesse, ovvero l’hic et nunc
CENNI BIOGRAFICI
Trascorse l’infanzia in India e di quel tempo sentì sempre la nostalgia, come scrive in “La Lunga Attesa”, un’autobiografia dei primi vent’anni; all’età di otto anni fu trasferito in Inghilterra per entrare in college. Dopo la scuola superiore, si arruolò come ufficiale carrista, partecipò ai combattimenti nelle Fiandre durante l’ultimo anno della Prima guerra mondiale meritandovi una decorazione; l’esperienza di questo periodo segnò la sua vita e il suo pensiero.
Dopo la guerra, conseguì la Laurea in storia all’Università di Oxford, studiò quindi medicina all’Università di Londra e, conseguito il titolo accademico, iniziò ad interessarsi di psicoterapia. Dal 1932 frequentò la Tavistock Clinic, e nel 1938, iniziò, con John Rickman, un’analisi che fu interrotta dallo scoppio della Seconda guerra mondiale e abbandonata quando i due colleghi si trovarono a lavorare insieme all’ospedale militare di Northfield; in tale contesto Bion cominciò a sviluppare la sua teorizzazione sui gruppi, che avrebbe trovato una formulazione definitiva in “Experiences in Groups” (1961). Nel 1945 intraprese un’analisi con Melanie Klein. In tale periodo divenne una figura di spicco nella Società Psicoanalitica Britannica, ricoprendo le cariche di Direttore della Clinica Psicoanalitica londinese dal 1956 al 1962 e di Presidente della Società dal 1962 al 1965. Si trasferì a Los Angeles nel 1968 e tornò in Inghilterra pochi mesi prima di morire nel novembre del 1979.
La comunicazione in oncologia, più volte dibattuta, studiata, misurata, rappresenta un aspetto lacunoso del processo terapeutico; default rischioso e ricettacolo, a volte, di varie improvvisazioni. In questa breve relazione, alla luce di alcune esperienze cliniche che di seguito riporterò, traccerò un percorso che ne identifichi, per certi versi, spazio e profondità. Comunicare significa soprattutto rendere noto, mettere in comune, in quanto processo costituito da un soggetto (o più), che ha intenzione di far sì che il ricevente (o i riceventi), pensi o faccia qualcosa. In oncologia, la comunicazione, pregna di significati di ordine logico-cognitivo e affettivo-ambivalente, veicola scelte terapeutiche ed emozioni, che contribuiranno alla costruzione di modelli di vita completamente nuovi, per la persona che li deve perseguire. Il sanitario che dà una comunicazione, “introduce” nel pensiero del suo interlocutore o paziente dettami, incoraggiamenti, preoccupazioni ed anche disponibilità, compassione, amore, ma a volte denigrazione, odio, e nei casi migliori “il senso della cura”… Continua Qui
Timeoutintensiva.it, N° 11/12, Focus, Dicembre 2009
Dr. Luigi Valera, consigliere nazionale S.I.P.O. (Società di Psico-Oncologia)
Nella tribù degli Yaka del Congo, il guaritore
viene definito traghettatore e l’immagine della
malattia è quella di una piroga che va alla deriva
o che si è rovesciata.
(Devisch , 1993)
Il guaritore, così come dice la metafora, mette in comunicazione ambiti distinti: salute e malattia, vita e morte, umano e invisibile, interno ed esterno, mostrandosi anche come grande conoscitore della psiche umana, delle sue leggi e dei modi in cui si esprimono le sue fratture. Il guaritore e la sua medicina sembrano sapere perfettamente che il corpo è il luogo critico di sutura fra l’inconscio e il soggetto sociale, che esso è propriamente parlando una macchina-ventriloquo del sociale. La rigida separazione tra salute e malattia che divengono opposti, uno in positivo e l’altro in negativo, impedisce ogni segno di relazione tra l’uno e l’altro, negando quindi un rapporto dialettico che faccia diventare la salute un momento di coscienza dell’appropriazione del corpo come superamento della malattia in quanto esperienza e la malattia una fase della vita, un’occasione di appropriazione di sé, del proprio corpo, delle proprie esperienze e quindi della salute. Di conseguenza anche le Cure Palliative non dovrebbero essere segregate solo alle fase terminale di malattia, ma dovrebbero supportare ed accompagnare l’aspetto antalgico e la risoluzione dei sintomi sin al loro insorgere, indipendentemente dalla gravità… Continua qui
Il Tocco Psichico: l’Esperienza del Dolore come Contatto con lo “Spazio ed il Tempo Vissuto” degli Operatori, nelle Cure di Fine Vita
Anna Carreca*, Ignazio Carreca**, Gabriella Cinà***, Patrizia Settineri*
*U.O. di Psichiatria di Collegamento ASP Palermo
**P.A. di Oncologia Medica, AOU “Policlinico”, Facoltà di Medicina e Chirurgia, Università di Palermo
***Psicologa, collaboratrice U.O. di Psichiatria di Collegamento ASP Palermo
gabriellacina@libero.it
Abstract:
Di fronte alle separazioni, il sentimento della mancanza è ciò che guida le nostre azioni, i nostri pensieri, la nostra percezione del tempo. Il contatto col dolore profondo e totale, fisico e psichico ci ricorda ogni giorno che, se esiste la possibilità di pensare un luogo in cui trovare dei segnali e degli strumenti di lenimento, essa è tanto più difficile quanto più l’esperienza del dolore si connota come esperienza di contatto fra varie manifestazioni dell’esistere. Se si può porre a distanza il dolore fisico del paziente (azione analgesica) in un rapporto di cura, il dolore mentale no, questo tipo di dolore non può essere soppresso con gli strumenti medici a disposizione, esiste un’identificazione e un’immedesimazione col dolore altrui. Il dolore fisico può essere solo immaginato nel contatto con la sofferenza della fine di una vita, quello mentale invece può essere provato attraverso un’identificazione involontaria e, spesso, non c’è un sistema di controllo rispetto al dolore mentale… Continua qui