Archivio della categoria: Le Idee

Una Riflessione Sul “Senso Comune”

Le Idee

Una Riflessione Sul “Senso Comune”

di Diego Bongiorno

Psichiatra, Psicoanalista

Il senso comune ha a che fare con la nostra sensorialità e con la possibilità di concordare sulla nostra esperienza sensoriale. Il senso comune e la sua costruzione presuppongono quindi alcune caratteristiche individuali e la presenza di una comunità di individui. Le carat-teristiche individuali sono la possibilità di esperire sensorialmente e di sentire. Ho utilizzato questo ultimo termine per riferirmi al campo emozionale dove, per esempio, non è possibile vedere la gioia ma  provarla così come la paura, la tristezza e così via.

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Timeoutintensiva,it N° 7

“Lo Sguardo Delle Vittime”

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Lo Sguardo Delle Vittime

di Ivo Lizzola

Professore Pedagogia Sociale, Università degli Studi di Bergamo

Lo sguardo della vittima svela l’impossibile assunzione del male. Il male è già, e ancora; è inguardabile: la vittima lo ha riconosciuto. Come enigma e come possibile. Non va cercata una “spiegazione”, né una “risposta” davanti all’enigma (come invece prova a fare Edipo): “vi si risponde di persona” restando là dove l’essere prima che oggetto di speculazione è patimento “nelle viscere” (las entrañas delle pagine di María Zambrano sulla pietà).

È una iniziazione in cui si ritrova e riprova di nuovo l’incompiutezza, l’umiltà, l’impotenza di donne e di uomini, certo capaci (anche in modo raffinato e attento) ma sempre ancora vulnerabili. I saperi, le tecniche, le terapie, le politiche, le didattiche, le cure si trovano a doversi declinare (e a declinare) come mezzi, come cammini di prossimità, come forme dell’approssimarsi perché, forse, si possa dare qualche nuovo inizio, qualche altra abitabilità del tempo, (delle relazioni, delle speranze)…

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Timweoutintensiva.it

La Cura di Un Vegetativo: la Sofferenza del Non Vivere

Le Idee

La Cura Di Un Vegetativo: la Sofferenza del Non Vivere

di Francesca Sapuppo

Ciò di cui vi parlerò, è un problema recente, nato da quando la tecnologia ha permesso forme di vita umana sco- nosciute fino a poco tempo fa.
Noi Rianimatori lavoriamo per impe-dire la morte e per non far soffrire, ma se la nostra rianimazione è sicura-mente determinante per impedire la perdita di tante vite, diventa terribile per non dire orripilante quando non restituisce alla vita un paziente ma crea mostruosità come i pazienti in coma persistente, i vegetativi…, i cronici. Questi pazienti erano prima della rianimazione tutti esseri umani, ma i loro corpi e le menti diventano irriconoscibili rispetto a se stessi, orribili: rattrappiti, iperestesi, bocche spalancate, serrate che emettono suoni, occhi senza sguardo, fermi nei loro letti, in tutto dipendenti da altri, ma senza mai riuscire a comunicare con gli altri.
Questi sono pazienti che vivono una condizione di cui non si sa neanche dare una definizione di vita e di morte. Perchè, se l’esistenza diventa vita per la storia che ci si costruisce dentro, loro sicuramente esistono, ma vivono?
Ed allora nasce la domanda: cosa è un cuore che batte, un respiro che entra ed uno che va?  Può essere la vita di un uomo, può essere la vita di un organismo o forse è solo la morte tecnologicamente sospesa in un processo di morte naturalmente avviato. La rianimazione crea involontariamente questi mostri e poi non sa che fare. Poteva evitarlo?
Questi pazienti, a cui noi Rianimatori non rivolgiamo più cure intensive, vengono accuditi giorno per giorno con impressionante pazienza dagli Infermieri. Loro li lavano, li nutrono, li muovono, li coprono, ma con un malessere che è l’espressione degli stessi incubi e fantasmi che attanagliano ognuno di noi al pensiero di poterci ritrovare nelle stesse condizioni.
La relazione di cura, che si crea con questi pazienti senza vita e senza morte è unilaterale o mediata dai parenti, e siamo noi stessi Operatori di Terapia Intensiva che ci costruiamo una storia di cura. I parenti arrivano ogni giorno a vederli e anche loro come noi non hanno certezze. Così le loro domande: sono vivi e perché non si svegliano? Ed allora sono morti e mantenuti dalle macchine?
I parenti vivono con noi, li vediamo ogni giorno arrivare, ed il nostro lavoro diventa sempre più difficile quando nella stanza dei colloqui stai accanto a loro che vorrebbero notizie di un risveglio che non arriverà. Li guardi e sai che non avranno a che fare con la morte, che è una certezza anche se dolorosa, ma con la sofferenza quotidiana della cronicità dell’incoscienza. E lì ti senti a disagio e inadeguato a continuare a trattare questi pazienti in cui hai la sensazione di produrre un prolungamento del processo di morte anziché della vita, e spesso li vedi morire lì in quei letti, soli, con sonde, tubi, devastati nel corpo senza poter dare loro una adeguata dignità del morire.
Ed i parenti che rimangono increduli per giorni, aspettando un risveglio, soffrono non la sofferenza del morire del loro caro, ma la sofferenza del loro non vivere.
Vivono questa relazione unilaterale con i loro cari incoscienti in tanti modi: chi non riesce più ad avvicinarsi a quei letti, chi parla con loro come se ascoltassero, chi li tocca e li bacia, chi piange per giorni, chi non ha più lacrime, chi, decide di portali a casa. Tutti con l’identica angoscia, il coma gli ha strappato la loro storia d’affetto. Non è morto, non è vivo, è disperso e si attende, che cosa?
Attendono quel giorno di morte, dopo mesi di avere atteso invano un miracolo, dopo avere esaurito tutte le speranze, in modo ambivalente. Sperano tutti che quel giorno sia senza ulteriore sofferenza, tutti ne hanno paura ma tanti lo preferiscono a quelle sofferenze disumane che la rianimazione ha creato e la tecnologia mantiene. Sono e rimangono soli, noi incapaci dentro la rianimazione di dare una risposta medica, la società incapace di dare una risposta umana e solidale ad una condizione inesistente prima dei progressi della tecnologia. Rare sono le famiglie che sopravvivono a questi accadimenti più devastanti della morte. Sì, più devastanti della morte perché una famiglia si ritrova non solo nel dolore, ma anche ad accudire quasi in totale solitudine il proprio caro. Se non vi è una famiglia allargata uno dei congiunti deve rinunciare al proprio lavoro per un’assistenza continua, “ci si deve inventare sanitari, fisioterapisti, badanti, psicologici….e poi senza alcuna speranza”.
Non più una giornata libera, non una vacanza dal malato e da se stessi, si comincia a morire da vivi per un vivo già morto, spesso colui che accudisce si ammala di una malattia senza nome: “la disperanza”. Ed è di questo che le famiglie hanno paura, paura di “non farcela”, per questo spesso sono restii a portare via i malati dalla Rianimazione o dai Centri di Riabilitazione.

Fonte:

Timeoutintensiva.it

“Oltre La Terapia Intensiva Aperta” di S. Livigni

Le Idee

“Oltre La Terapia Intensiva Aperta”

di Sergio Livigni

Direttore Terapia intensiva dell’Ospedale San Giovanni Bosco di Torino

Cercherò di spiegare perché ritengo che l’apertura di una Terapia Intensiva non significhi soltanto “la razionale riduzione o abolizione di tutte le limitazioni non motivatamente necessarie poste a livello temporale , fisico, relazionale” (Giannini A. Open Intensive care units:the case in favour. Minerva Anestesiol 2007 73: 299- 305), o meglio, perché ritengo che questa riduzione o abolizione sia necessaria, ma non sufficiente.

Il mio ragionamento parte dal principio morale utilitarista per cui ogni azione deve avere il fine di ottenere il massimo di utilità per tutti o per il maggior numero di individui interessati e dal rifiuto del paternalismo medico, cioè dell’atteggiamento secondo cui il medico conosce il bene del proprio paziente e può scegliere al suo posto proprio come un padre di famiglia conosce il bene dei suoi figli e sceglie per loro.

Nella pratica clinica non distinguo il sentire del medico/operatore sanitario da quello del paziente o del familiare, ma considero il medico/operatore sanitario anche paziente e familiare.

Spero di non essere troppo contorto nel ragionamento: ciò che può modificare il mio modo di agire (l’agire medico in questo caso) è la conoscenza delle conseguenze generate dall’azione che mi accingo a compiere o ad evitare, valutando le diverse posizioni dei soggetti interessati; nel caso della Terapia Intensiva cerco di eliminare tutte le limitazioni individuate da Giannini perché so che l’apertura della Terapia Intensiva segue un principio morale corretto.

Quali sono gli individui interessati? I pazienti, i familiari, gli operatori sanitari. Qualcuno ha un diritto maggiore, c’è un conflitto di diritti o di doveri? Il rispetto del diritto non risponde al principio morale utilitarista?

Assolutamente no! Continuare a mantenere chiuse le Terapie Intensive significa negare un diritto: il diritto alla giusta comunicazione, alla giusta relazione, il diritto alla presenza degli affetti più cari, il diritto di scelta, diritti di ognuno di noi.

Non si può continuare ad ignorare le maggiori raccomandazioni della letteratura scientifica per la buona pratica clinica: a tutti sono noti i concetti di decisioni condivise, attenzione comunicativa, consenso informato, l’importanza del supporto spirituale, dell’educazione del personale, quanto la presenza dei familiari durante manovre di rianimazione, l’assistenza, prima, durante e dopo un decesso. Dobbiamo accettare tutto questo e riconoscerne la giusta dignità per la cura del paziente.

Stabilita la necessità di quanto sopra siamo comunque in difetto perché ci limitiamo soltanto ad un aspetto del diritto.

Il diritto del paziente è molto più ampio: il medico non può compiere qualsiasi atto senza un consenso né evitare di dare informazioni; il medico deve riconoscere la sovranità del paziente sul proprio corpo e sulla propria vita.

Come sostiene Maurizio Mori “…E’ l’interessato che deve scegliere ciò che intende sia fatto sulla propria persona. In questo senso, il consenso informato determina due conseguenze importanti:

a. Il passaggio di titolarità decisionale, che prima spettava al medico mentre ora passa all’interessato;

b. Il riconoscimento che l’interessato ha sovranità sul proprio corpo e sulla vita ad esso connessa, punto che giustifica il passaggio di titolarità decisionale….”

A questo punto il modello terapeutico si modifica completamente; se comprendiamo ed accettiamo questo cambiamento possiamo dire di avere abbattuto tutte le barriere e scoperto o meglio riscoperto il significato della cura.

Ecco perché ritengo che si debba andare oltre… La cura non può terminare al momento della dimissione, ma deve continuare nel tempo, oltre le diagnosi e le terapie, in una continua ricerca della Persona più che della patologia.

Fonti:

Ospedaleaperto.com

Vivere 120-130 Anni è una Minaccia per l’Umanità del XXI secolo?

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Vivere 120-130 anni è una minaccia per l’umanità del XXI secolo ?


Sembra che l’aumento della durata della vita oggi, auspicato e desiderato da molti, esiterà in una fragilità mentale che diverrà una grave minaccia per l’umanità del nostro futuro prossimo venturo.
A questo proposito vi riportiamo un frammento di un articolo,  uscito sul Corriere della Sera on line del 29 gennaio 2012 dal titolo: “Vivere 120 anni in pessima salute”

Savas

dal film: Il Ritratto di Dorian Gray

“La vita si è allungata per l’allungamento della vecchiaia e non del periodo centrale dell’esi-stenza. L’invecchiamento del cervello si ma- nifesta col declino delle attività cognitive. Quando il cervello invecchia male o troppo in fretta, la vita è compromessa, anche se il corpo é in buone condizioni. Lunghezza e significato della vita sono cose diverse. Alla nascita il cervello umano pesa 400 grammi, a sviluppo completo, a ventidue anni, 1350-1500 grammi. Ciò è dovuto non tanto all’aumento del numero di neuroni, quanto piuttosto del numero e della complessità delle diramazioni dei neuroni (assoni e dendriti) e delle sinapsi, stipate, assieme con i neuroni e con la glia, nella corteccia cerebrale. Il ritmo massimo dell’au- mento del volume e della complessità del cervello avviene fra il settimo e il dodicesimo anno, periodo in cui la capacità di apprendere è all’apice. A quella età è facile, ad esempio, imparare lingue e dialetti. La regressione inizia non appena lo sviluppo del cervello è completo, vale a dire a ventidue anni. L’energia di cui il cervello dispone (circa il 30% di quella del corpo) non è in grado di mantenere in vita una massa densa, complicata e ricchissima di meccanismi perennemente in azione. I segni dell’in-vecchiamento del cervello si notano quando la densità della sinapsi è regredita del 40%: a quel punto i neuroni non sono più sufficientemente interconnessi. La rarefazione delle sinapsi si annuncia con la diminuzione della memoria e prosegue con l’indebolimento di altre funzioni mentali. Non si tratta di una malattia in senso stretto, ma dell’invecchia-mento del cervello, che, per la diversa traccia genetica della velocità di regressione di sinapsi e di neuroni e per le circostanze della vita, varia da persona a persona. Un modesto calo della memoria, l’indebolimento della capacità di imparare cose nuove e di concentrarsi a lungo non sono segni di demenza, ma di un modesto disturbo cognitivo. Di demenza si parla quando la perdita delle capacità cognitive e intellettuali rende le persone diverse da com’erano prima. Se il danno cognitivo è avanzato, si parla di demenza senile primaria che, nelle forme estreme, non si distingue dalla malattia d’Alzheimer. I disturbi sorgono e si aggravano in maniera spesso subdola, alla lunga di anni. Ne sono colpiti anche cervelli formidabili, come quello d’Immanuel Kant, il cui declino iniziò con la diminuzione della memoria e con la perdita della cognizione del tempo, e proseguì fino all’incapacità di riconoscere persone familiari e alla ripetizione ossessiva di movimenti senza senso… L’invecchiamento è inarrestabile. Quasi tutti coloro che dovessero raggiungere, come oggi si profetizza con giubilo, i 120-130 anni sarebbero dementi, e spesso anche ciechi e sordi.
L’aumento della durata della vita rende la fragilità mentale una delle più gravi minacce all’umanità del XXI secolo.”

Fonti:
Dal capitolo «La coscienza del cervello che s’invecchia» del libro di Arnaldo Benini «La coscienza imperfetta. Le neuroscienze e il significato della vita» Garzanti, Milano 2012.

Per leggere l’Intero articolo Uscito su Corriere della Sera on line il 27 Gennaio 2012 Clicca qui