Editoriale
Vi proponiamo un breve ma interessante articolo dal sito Ospedaleaperto.com scritto dal dr Giuseppe Naretto, Anestesista-Rianimatore, che pone una problema che ognuno di noi operatori di cure intensive, ma anche i pazienti dimessi e chi si occupa di sanità, dovrebbe porsi.
Buona Lettura
Il paziente dopo la dimissione non è più affar nostro?
di G. Naretto (Servizio di Anestesia e Rianimazione 2 DEA dell’Ospedale S.G. Bosco di Torino)
La malattia di un paziente non si esaurisce con la sua dimissione dalla terapia intensiva. Quasi il 20% di loro muore entro un anno dal ricovero, e solo la metà dei sopravvissuti riprende la vita che aveva prima. In quasi tutti vi è un peggioramento della qualità di vita in relazione alla salute, che pur migliorando nel tempo non ritornerà al livello precedente il ricovero. Molti pazienti presentano disturbi psicofisici, come ansia, depressione, irritabilità, insonnia, dolore, debolezza, che interferiscono significativamente con le loro attività quotidiane. Vi è poi una quota, più piccola ma comunque sempre significativa di persone, che non sono più autosufficienti, dipendendo in maniera variabile da familiari e strutture.
Conoscere lo stato di salute dei pazienti che sono stati ricoverati in terapia intensiva è doveroso innanzi tutto nei riguardi dei pazienti stessi, che si portano spesso ancora addosso i segni della malattia. Questi segni sono “l’effetto collaterale” della nostra cura, è “il costo” che hanno dovuto pagare per sopravvivere alla malattia. Ogni gesto di cura, ogni atto sanitario, deve poter essere valutato secondo il semplice e universalmente riconosciuto rapporto costi/benefici. Il beneficio del ricovero in terapia intensiva non può essere semplicemente misurato in termini di sopravvivenza. Sicuramente esso è uno degli indicatori di successo della cura, ma non è il principale e soprattutto non può continuare ad essere l’unico. Non di un atto terapeutico che ha un peso così grande nella vita di un malato.
Incontrare questi pazienti permette di dare un valore a questo “peso”; di capire un po’ meglio cosa significa per una persona e per la sua famiglia essere tanto malato da dover richiedere un ricovero in rianimazione, cosa vuol dire percepire la fragilità e la “mortalità” del proprio essere, e cosa vuol dire assistere impotenti alla battaglia intrapresa per la salvezza. La nostra presenza nella vita di queste persone è tanto breve quanto dirompente, ma soprattutto condizionerà in maniera indelebile il loro futuro.
Crediamo che la riflessione su tutti questi aspetti del nostro lavoro può aiutarci a capire quali siano le strategie migliori per offrire una medicina sempre più all’avanguardia, sempre più appropriata e personalizzata che trova nella relazione di cura un continuo stimolo di miglioramento.
da Ospedaleaperto.com